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Torre Partigiana

Umberto Mellino, partigiano della liberta

PREMESSA
Il nostro territorio ha una ricca storia partigiana già raccontata da autori illustri che sono stati protagonisti degli eventi della guerra e della resistenza. Esistono però storie “piccole” che non hanno avuto l’onore delle cronache nazionali ma che hanno significato e significano ancora moltissimo per le realtà in cui si sono svolte.
A dimostrazione dell’importanza data alla resistenza ed ai suoi protagonisti, Torre Mondovi’ ricorda, attraverso tre lapidi, il contributo offerto alla lotta partigiana dal proprio concittadino Umberto Mellino: le tre lapidi, ognuna in un modo diverso, tengono viva la memoria del sacrificio del partigiano Umberto Mellino, fucilato dai nazifascisti il 14 marzo del 1944, a soli 26 anni.
La prima si trova al cimitero di frazione Piazza, fatta realizzare dalla famiglia, riporta anche le date di fucilazione di altri tre partigiani ignoti caduti tra la primavera e l’estate del ’44. La seconda è quella affissa sul muro del Municipio davanti al quale Mellino è stato fucilato: tra la grande lapide che ricorda i caduti e i dispersi di Torre Mondovi’ dal ’40 al ’45 e quella piccola e recente a memoria degli alpini della Cuneense periti in Russia, se ne trova una che indica il punto dell’esecuzione del “Partigiano della Libertà” Umberto Mellino, di cui è anche affissa una foto. L’ultima lapide è forse la più anonima perché “nascosta” dalla sua funzione di “pubblica utilità”, ma è anche la più rappresentativa dell’importanza della figura del nostro concittadino: riporta solo nome e cognome del partigiano ma è quella che da il nome alla piazza del Municipio, intitolata proprio ad Umberto Mellino.
La possibilità di tramandare la storia di questo nostro concittadino è dipesa dalla disponibilità dell’ultimo rimasto dei fratelli Mellino (cinque maschi ed una femmina) ovvero Mario, classe 1924, residente in frazione Borbera, il quale ha accettato di ricordare e raccontarci un giorno davvero infausto per la sua famiglia. Quello che segue è il resoconto di una lunga chiacchierata tra alcuni giovani del paese e Mario Mellino in una sera di settembre.

14 MARZO 1944: RICORDI DI UN GIORNO TERRIBILE
“Tempi duri… tempi durissimi…” Mario inizia cosi’ il suo racconto mentre si passa una mano tra i capelli come se volesse aiutare i ricordi a uscire fuori dopo tanto tempo. Già, perché Mario ce lo dice proprio che a quei tempi ed in particolare a quel giorno cerca di non pensare mai: questo non solo aumenta ulteriormente la nostra gratitudine nei suoi confronti ma ci fa già capire che per le ferite che si portano dentro nemmeno un tempo lungo 65 anni è sufficiente a guarire.
I tedeschi occuparono Torre il 13 marzo del 1944: i torresi videro i carri armati (in dialetto chiamati “babi”, rospi in italiano) arrivare dalla piana di San Michele e successivamente occupare Torre Piano e piazzare una mitragliatrice sulla torre antica in frazione Piazza.
In quei giorni Mario, appena ventenne, era nascosto nei boschi sopra Borbera insieme ad altri partigiani mentre a casa erano rimasti i suoi genitori, la sorella Margherita e suo fratello Umberto, sergente maggiore degli alpini. Allora Umberto, nonostante avesse solo 26 anni, aveva già combattuto in Albania ed in Russia riuscendo a tornare da luoghi in cui molti suoi coetanei avevano trovato la morte, distinguendosi non solo per il suo profondo spirito patriottico ma anche per coraggio ed umanità. Mario ci racconta che per anni un cugino ha ricordato Umberto come la persona grazie alla quale è riuscito a scampare da morte certa in Russia: distrutto dalla fatica, come molti altri, si era accasciato al bordo della strada deciso a non muoversi più. Fu solo grazie alla forza di Umberto, che lo vide, lo aiutò ad alzarsi ed a riprendere la marcia, che il gelido inverno russo non si prese un altro dei “nostri” ragazzi.
L’occupazione tedesca iniziò come sempre con interrogatori e perquisizioni alla ricerca di armi che i cittadini custodivano per i partigiani. Mario ci racconta che con il fratello aveva sotterrato una cassa con armi e munizioni nella vigna, ma Umberto, che era entrato nell’esercito a diciotto anni e che aveva già combattuto in due guerre, non era abituato a restare senza un’arma (soprattutto in tempi terribili come quelli), motivo per cui aveva tenuto una pistola nascondendola nel forno di casa.
I tedeschi giunsero alla casa dei Mellino in frazione Borbera il giorno dopo il loro arrivo a Torre: Mario non era presente ma il ricordo di quei momenti drammatici arriva indirettamente dai racconti che, negli anni a seguire, la sorella minore Margherita ha trasmesso ai familiari. Non ci volle molto ai nazisti per trovare la pistola: prelevarono Umberto, i genitori e la sorella, dimostrando immediatamente la loro brutalità incendiando la casa della famiglia. L’intento di distruzione era anche superiore perché venne buttato un fascio di bombe a mano sul tetto della casa: fu solo un caso se le bombe non esplosero radendone al suolo anche gli spessi muri in pietra.
I Mellino vennero tutti portati al Piano dove i tedeschi avevano occupato i locali dell’attuale Municipio. Fu da subito chiaro il destino che attendeva il giovane Umberto: per chi deteneva armi e non era disposto a fornire informazioni, il verdetto era uno solo ovvero la fucilazione. Mario parla attraverso le parole dell’allora giovanissima sorella che ricordava Umberto, scortato dai tedeschi fuori dal palazzo, passare davanti a loro e dare l’annuncio del proprio destino ai familiari. È qui che la voce di Mario si incrina una delle prime volte e anche per noi che ascoltiamo non è facile nascondere la commozione. Sì, perché saputo cosa stava per accadere al proprio figlio, il padre si propone per lo scambio: “prendete me, che sono vecchio…”, gesto estremo di amore fermamente rifiutato dal giovane Partigiano che scuotendo la testa disse semplicemente “tocca a me” affrontando il plotone.
Quei tempi durissimi avevano purtroppo insegnato a capire al volo gli eventi anche a ragazzi giovani come Mario, il quale dal proprio nascondiglio nei boschi, aveva visto il fumo salire esattamente dal posto dove si trovava casa sua. Con i tedeschi in paese, una casa incendiata non faceva certo pensare ad un tizzone saltato da un camino. La preoccupazione per la famiglia, la rabbia per quello che vedeva da distante e la consapevolezza di quello che quel fumo significava, fecero crescere in Mario il desiderio di vendetta. Armato di una cintura di bombe a mano era deciso a scendere in paese e compiere la propria vendetta, pienamente cosciente che in un modo o nell’altro, quel suo comportamento lo avrebbe portato alla morte.
Se oggi Mario è qui a raccontarci quei momenti lo deve alla lungimiranza di un anziano concittadino che dalla propria cascina lo vide, evidentemente sconvolto, dirigersi verso il paese. Nonostante i rischi che poteva comportare, lo fermò invitandolo ad entrare. Già a conoscenza di quello che era accaduto al Piano ma evidentemente deciso ad evitare altro sangue ed altre tragedie, l’anziano cercò di tranquillizzare Mario offrendogli da mangiare e dicendogli “tuo fratello e i tuoi li hanno prelevati per interrogarli e poi li hanno trasferiti a Ceva…”. Quest’ultima parte era in effetti la verità, i genitori e la sorella di Mario passarono una notte in carcere a Ceva e vennero rilasciati il giorno seguente. “… A casa tua ed in paese, i tedeschi aspettano solo te… torna sui monti e resta li, che ora non puoi fare niente…” questi miti consigli non diminuirono le preoccupazioni di Mario ma ne placarono rabbia e sentimenti di vendetta, spingendolo a tornare nei boschi.
La chiacchierata con Mario è proseguita a lungo con racconti emozionanti dei giorni e delle settimane successive, giorni in cui Mario attraversò i boschi per giungere fino a Mondovi’ Piazza e nascondersi in casa di parenti. Giorni in cui la famiglia Mellino si trovò senza una casa e, priva di tutto, poté contare solo sull’aiuto degli altri torresi.
Sono racconti di tempi in cui la vita delle persone era legata a fili sottilissimi che cambiavano ogni giorno assottigliandosi o ispessendosi a seconda di chi ci si trovava di fronte. In quei giorni vedere l’alba del giorno dopo era una continua scommessa mai facile da vincere, come dimostra la storia del Sergente Maggiore degli Alpini Umberto Mellino, Patriota e Partigiano della Libertà.

UNA LEZIONE DA IMPARARE
Sono sembrate minuti, le ore trascorse insieme a Mario per farci raccontare la storia di un uomo che per molti è solo il nome di una piazza ma che per il nostro “narratore” è quello del fratello Umberto. Noi, che abbiamo avuto la possibilità di “conoscerlo” attraverso le foto di famiglia e soprattutto attraverso le parole di chi gli ha vissuto accanto, da oggi smetteremo di pensare al suo nome come quello di una piazza: da oggi il suo nome sarà quello di una storia da raccontare, una storia da cui imparare.
Ascoltare e riportare (anche attraverso un mezzo di comunicazione potente come internet) la storia del partigiano Umberto Mellino ci ha offerto la possibilità di rispettare il monito della frase che si può leggere sulla lapide del cimitero “…PROPRIO PER QUESTO INFATTI ESSI MORIVANO: PER AVER VISTO. E GLI ALTRI UCCIDEVANO PERCHE’ ERANO CIECHI …”
La storia, anche e soprattutto dei giorni nostri, ci insegna drammaticamente che l’uomo non impara mai le lezioni che la storia stessa gli tramanda, ma questo non è un buon motivo per smettere di riportarle quelle lezioni e fare sì che il messaggio che contengono non vada perso, ma anzi arrivi ai fortunati che certi tempi non li hanno vissuti. Da sempre l’ignoranza, intesa come non conoscenza dei fatti e delle conseguenze delle azioni, è origine di odio, di dolore e di catastrofi in cui pochi illuminati “vedono” dove sta il giusto e combattono contro chi, “accecato” dal desiderio di imporsi, si muove per ideali sbagliati.
Ecco perché è importante ricordare il sacrificio di Umberto Mellino: conoscere e capire, affinché quelli che “vedono” siano sempre più dei “ciechi”.
Ma la lezione che si apprende dai racconti di Mario Mellino è ancora più profonda ed è che la Storia, per avere la Esse maiuscola, non deve essere per forza quella che siamo abituati a leggere nei libri di scuola o a vedere nei documentari alla televisione. “L’unità di misura” degli eventi non è unica: la loro importanza non dipende solo da come e quanto hanno cambiato il corso della storia ma è piuttosto legata a quanto quegli eventi hanno coinvolto chi li racconta e a quanto noi, che ascoltiamo, li sentiamo vicini.
La dimostrazione la troviamo negli occhi azzurri di Mario, lucidi a causa di ricordi che feriscono ancora nonostante i tanti anni passati e nel nodo di commozione che ha stretto la gola di ognuna delle persone che una sera di settembre li ha potuti ascoltare dalla viva voce di chi ha vissuto quei giorni terribili.